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Articolo inserito in data 05/12/2009 15:31:18
I miei racconti
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GIANLUCA CARBONI - "La rocca di Montepoggiolo"

Questo racconto appartiene all'autore. Puoi leggerlo, stamparlo, ignorarlo o consigliarlo a un amico, ma ricorda che "tutti i diritti sul testo sono riservati".

La rocca di Montepoggiolo

Conobbi Marco molti anni fa, un giorno di primavera, forse d'aprile.
Lori ed io parcheggiammo il 2cv bianco, il nostro piccolo gioiello a quattro ruote, nella stradina sterrata ai piedi del colle sul quale la rocca di Montepoggiolo domina la bassa valle del Montone. Nello splendido cielo azzurro il sole era alto, l'aria più che tiepida, e dopo una mattina passata all'Università di Bologna la già blanda determinazione di restare a casa a studiare per l'esame di matematica si era facilmente dissolta. Spesso andavamo in quel luogo dal quale la vista su Forlì, verso la pianura, fino al mare, è incantevole. Quelle mura antiche, poi, avevano per noi un fascino particolare; vi camminavamo attorno parlando di mille argomenti, progettando viaggi, sognando avventure, immaginando ingenuamente un futuro nel quale ogni ostacolo sarebbe stato affrontato, superato con un po' d'impegno e un sorriso. A volte le usavamo per i primi tentativi di arrampicata, i primi allenamenti a non più di due metri d'altezza scambiandoci consigli sulla migliore posizione dei piedi per mantenere l'equilibrio, sulle prese, mattoni e pietre la cui stabilità era una scommessa, che avrebbero permesso un particolare movimento in parete.
Prima di arrivare al castello abbandonato – eravamo lungo il sentiero fra gli alberi del boschetto che credo ancora lo circondi – udimmo una voce femminile concitata: qualcuno si era accorto dell'esistenza di quell'angolo tranquillo e senza alcun rispetto per il nostro aleatorio diritto di precedenza lo aveva rumorosamente occupato. Ci guardammo in silenzio, accigliati, offesi, sconfortati, quindi la curiosità ebbe il sopravvento e affrettammo il passo.
Ciò che vedemmo ci lasciò interdetti: un ragazzo si era arrampicato sul muro esterno di un torrione cilindrico e in quel momento si trovava a una decina di metri dal suolo, appena sotto a una finestrella che evidentemente non riusciva a raggiungere. Lassù la parete era verticale e in buono stato di conservazione, liscia e compatta, per cui mancavano gli appigli necessari per proseguire la scalata. In basso una ragazza, piuttosto bella e agitata, alternava attimi di pacatezza riflessiva ad altri di isteria rabbiosa, tacendo pensierosa e subito dopo gridando consigli, improperi, raccomandando attenzione, borbottando maledizioni e preghiere.
Il ragazzo non mostrava segni di nervosismo o paura, anzi pareva aver totalmente il controllo della situazione, appeso con mani e piedi a minuscole irregolarita del muro, ma in realtà non era in grado di scendere.
Lei si voltò, si accorse di noi, le si illuminò il viso come se fossimo una squadra del soccorso alpino e ci corse incontro:
"E' lì da dieci minuti... non riesce a vedere i punti d'appoggio per i piedi, non può tornare giù..."
Come aiutarlo? Mi avvicinai al torrione fingendo competenza per mantenere la tensione ad un livello accettabile pur nella consapevolezza di non sapere cosa fare; lo salutai.
"Oibò, ci sono testimoni... ciao a voi, laggiù... ho un problema e se non lo risolvo vi raggiungerò presto, volando...", disse tranquillo.
"Dio mio, è un pazzo", pensai.
"Dio mio, se casca si ammazza", sussurrò Lori.
"E' un idiota, gli avevo detto di lasciare perdere...", sibilò la ragazza senza più riuscire a trattenere le lacrime.
Non c'era il tempo per chiamare persone capaci di intervenire, fossi poi corso fino ai casolari vicini difficilmente vi avrei trovato una scala tanto lunga, e se anche l'avessi trovata non saremmo riusciti a portarla fin lì prima che il pazzo, o idiota, precipitasse. Restava solo una cosa da fare:
"Ascoltami: provo a salire per qualche metro, per vedere meglio e guidarti nei movimenti... te la senti di fare un tentativo?"
"Bella idea, così se volo giù accoppo anche te..."
"Ma sei sicuro?", chiese Lori.
"Hai altre idee?", e partii verso l'alto.
L'operazione di recupero riuscì. Io ebbi paura, qualche malcelato tentennamento e tornato a terra il mio attimo di gloria; lui, rilassato come se nulla fosse successo, sorridente, mi ringraziò, ma dovette subire il violento sfogo della sua compagna:
"Sei un idiota... sei un idiota... se non c'erano loro...", gridava mentre lo tempestava di pugni sul torace e le spalle, poi lo abbracciò piangendo.
"Ho capito, non lo farò più... te lo prometto".

Diventammo amici, non poteva essere altrimenti.
Quel settembre andammo insieme in vacanza in Liguria. Solo una settimana, intensissima, con due minuscole tende canadesi, i soldi contati, vecchie macchine fotografiche, qualche bottiglia di vino, altrettante di birra, una carta escursionistica, un notes pieno di appunti su palestre di roccia, sentieri, vie alpinistiche, castelli, ruderi di paesi abbandonati, postazioni militari, fortini di fine Ottocento, con scarponi da montagna, zaini, scarpette da arrampicata, con un borsone di viveri offerto dai genitori, pentole, fornellini a gas, cianfrusaglie varie ritenute fondamentali per le troppe avventure in programma, il tutto incredibilmente stipato nel nostro 2cv.
L'economico campeggio era orribile, però in posizione strategica, nei pressi della maggior parte dei luoghi che avremmo visitato; a noi parve comunque un lusso l'acqua calda a gettone nella rustica doccia.
Arrampicammo con scarsi risultati nelle falesie di Finale Ligure, conquistammo alcune semplici cime e in una ci accorgemmo che esisteva una comoda strada nel versante opposto a quello ripido, faticosamente affrontato perdendo più volte l'orientamento, e passeggiammo giorno e notte in splendidi borghi medioevali, Dolceacqua, Apricale, Pigna, Triora, scattando decine di fotografie.
Lori e Valentina, così si chiamava la compagna di Marco, più che altro ci sopportavano pazientemente, consapevoli della loro fondamentale funzione di riportarci a casa integri. Lui era un vulcano di idee, nulla lo fermava, rinunciava solo quando si rendeva conto che nessuno l'avrebbe seguito ulteriormente, anzi, qualche attimo dopo. Era il motore del gruppo, sempre sorridente, di buon umore, simpatico, sempre propositivo, capace di elaborare un nuovo itinerario, di proporre una nuova meta ogni qualvolta risultasse impossibile da raggiungere – e succedeva spesso – quella precedentemente mirata. Amavo il suo umorismo, soprattutto le macabre battute fulminanti con le quali ti illustrava un pericolo convincendoti ad affrontarlo – e ti trovavi coinvolto, aldilà del limite senza saperne il motivo – e amavo il suo modo di rapportarsi con la realtà perché se ad un esame superficiale pareva che nulla lo scalfisse, lo interessasse realmente, io avevo capito che invece tutto contribuiva alla sua crescita interiore, alla sua conoscenza, che ogni piccolo particolare, ogni singolarità era per lui importante, che utilizzava i momenti di presunta imperturbabilità per elaborare e mettere a frutto ogni informazione.

Una mattina lasciammo un paese di collina camminando su una antica mulattiera lastricata; in un paio d'ore saremmo dovuti arrivare in un borgo dominato da un castello in rovina e lì avremmo trovato un modo per entrarvi di nascosto, poi avremmo proseguito attraverso un bosco, un castagneto, verso la facile cima della montagna, quasi un panettone di roccia e detriti che in base all'accurato esame della nostra carta  avevamo concluso chiudesse la valle. Un'escursione elementare su sentieri segnalati, quindi, e negli zaini avevamo solo cibo, acqua, maglioncini, impermeabili e un paio di torce.
Dopo alcuni chilometri transitammo in una zona particolarmente isolata e impervia, di quelle che spesso, inaspettatamente, la Liguria propone nel suo entroterra. A destra il versante saliva ripido, con una vegetazione rada, cespugli più che altro, e grandi massi appoggiati su una superficie di pietrisco grigio; sembrava di trovarsi alla base di un enorme mucchio di ghiaia pronto a franare al primo temporale col suo carico di poderosi macigni. A sinistra, aldilà del basso muretto a secco della mulattiera, l'inclinazione aumentava rapidamente mutando il pendio in una vera e propria parete rocciosa verticale che in fondo, almeno 30 metri sotto di noi, delimitava il corso di un rumoroso torrente: stavamo superando una gola selvaggia, ma l'ammirazione per il luogo e per gli abilissimi costruttori medioevali di quell'antica stradina in miracoloso equilibrio era in parte attenuata dall'importante decisione che stavamo prendendo, cioè se fosse giunto il momento di concederci quella sera, finalmente, una cena in pizzeria, l'unica che la nostra preoccupante situazione finanziaria avrebbe potuto permettere durante quel viaggio.
Un guaito attirò per un attimo la nostra attenzione. Ci fermammo ascoltando e il torrente aumentò il volume del suo eterno racconto. Io ero certo di ciò che avevo sentito, ma lo sguardo perso di Marco – era già nei cunicoli del castello, o in cima al monte – e la determinazione di Lori e Vale a riprendere i conti per cercare di ricavare dalla cassa comune un gruzzoletto in grado di garantire almeno una pizza a testa senza causare un irrimediabile dissesto economico, mi convinsero che un soffio di vento fra rametti e foglie si fosse preso gioco di me.
Fu un abbaio disperato a gelarci il sangue e i muscoli. Da quando eravamo partiti, un'oretta prima, non avevamo incontrato esseri umani e inconsapevolmente eravamo entrati in un mondo che ci pareva abitato solo da uccelli e qualche raro, velocissimo scoiattolo; un cane non poteva essere lì perché non vi erano casolari, cacciatori, escursionisti e per almeno un centinaio di metri davanti e dietro a noi riuscivamo distintamente a vedere la mulattiera deserta, ma Marco fischiò e l'animale rispose eccitato, poi tacque.
Ci guardammo attorno sconcertati, in silenzio. Mi avvicinai al muretto e pur sembrandomi stupida l'idea perché troppo profonda era la gola e troppo vicino il richiamo, osservai il torrente.
"Eccolo, ma cosa sta facendo in quel buco?"
Il bellissimo bracco capì che qualcuno l'aveva trovato, l'avrebbe aiutato; il suo latrato divenne gioioso e la sua coda impazzì, ma quello che non poteva fare era valutare la pericolosità della sua posizione: poco più avanti rispetto a noi, in un terrazzino largo un passo e lungo un paio, tre metri sotto al ciglio del muretto di pietra e almeno venti sopra al corso d'acqua dal quale lo separava un muro verticale di roccia fratturata.
"Come è arrivato fin lì? L'avranno calato...", disse Vale.
"C'è caduto... non può essersi arrampicato dal fondo...", non era una risposta quella di Lori, ma un pensiero preoccupato casualmente sfuggito.
Marco osservava il cane, era il solo che fino a quel momento non avesse aperto bocca:
"Dobbiamo recuperarlo, tirarlo su".
Anche il cane osservava Marco, lo fissava improvvisamente silenzioso, accucciato sulle zampe posteriori e con le lunghe orecchie appena rizzate in quella simpatica posizione che in questi animali denota l'attenzione massima: sapeva che sarebbe stato lui a soccorrerlo.
"Ok, cerchiamo di ragionare...", intervenni, "siamo senza corda, il muretto con un calcio viene giù, nella roccia ci sono appigli, ma è marcia e se anche uno di noi riuscisse a raggiungerlo senza precipitare... come potrà riportarlo su? Peserà 15/20 chili..."
"Facciamo in questo modo", disse Marco, "io scendo a vedere come sta, poi un'idea ci verrà..."
Non potevo, non volevo fermarlo perché Marco era così, uno splendido idiota, un artista pazzo, un creatore di sogni e se per un qualche motivo quel giorno fosse stato costretto a rinunciare la ferita nel suo cuore sarebbe stata orribile... e pur di evitargliela avrei trovato io il coraggio di provarci, di vincere il terrore, per il cane e per lui.
Valentina sussurrò: "se chiamassimo qualcuno...", poi sbottò: "maledizione, succede sempre a mille chilometri da tutto..." e tornò a sussurrare: "fai attenzione, ti prego..."
"Te lo prometto".

Arrivò sulla cengetta e si sedette vicino al bracco che festoso, delicatamente si accucciò in braccio a lui leccandogli il volto. In quel momento mi accorsi che nessuno aveva respirato e anche il torrente si era arrestato ad osservare.
"Come sta?"
"Bene", disse accarezzandogli con entrambe le mani il collo, grattandolo sotto le orecchie, "è giovane, un bellissimo cucciolone... un giorno avrò anch'io un cane così..."
"Ok... ok... e adesso, cosa dici di fare?"
Pareva ipnotizzato dagli occhi profondi del cane, poi si concentrò sul terrazzino, sulla roccia sopra, per un attimo incrociò il mio sguardo ed ebbi l'impressione che avesse perso un po' dell'infinita sicurezza che gli attribuivo; sentii un fastidioso tremore nella schiena.
"Intanto lo tranquillizzo, deve capire che può fidarsi". Restò in silenzio, pensando.
In silenzio, anche noi restammo in silenzio.
"Bene, è ora di provarci. Adesso ve lo passo. Avrò qualche problema a risalire e dovrete aiutarmi. Dopo andremo al castello e stasera a mangiare una pizza... avete finito i conti? Abbiamo abbastanza soldi, vero?"
Era sempre lui, con la sua imperturbabilità, il suo umorismo, ma il mio tremore non cessò.
"Scusami, Marco, ma non ho capito. Come fai a passarlo su?"
"C'è un gradino qui; non riuscite a vederlo perché la parete è leggermente strapiombante. Vi salgo sopra e guadagno almeno mezzo metro. Prendo il cane e piano piano lo isso sulla testa. Tu ti sporgi il più possibile mentre loro ti tengono, lo afferri e lo tiri su... altri dubbi?"
Non potevo ridere perchè stava parlando seriamente e improvvisamente avevo la consapevolezza che il confine fra uno scherzo e un dramma, fra un azzardo e una tragedia, fra la vita e la morte è impercettibile anche a vent'anni.
"Scusami, Marco, ma come pensi di restare in equilibrio su quei trenta centimetri, con le braccia alzate a sostenere quel peso? E se il cane avesse paura e si agitasse? E' forte, cadreste entrambi... e io come faccio a sporgermi su questo muretto a secco, a testa in giù? E come farò a recuperare il cane, a risalire con entrambe le braccia tese a reggerlo? E loro come potranno tenermi, tirarmi su?"
"Sì, non è semplice, ma non ci sono altre possibilità. Il cucciolo è tranquillo, ha capito, non si muoverà... è un cane da caccia, intelligente, sa che deve obbedire... io resterei lì in equilibrio anche se avessi bevuto tre birre... tu non cadrai perché sai che accopperesti anche me, come quella volta a Montepoggiolo... eri sotto e sono stato costretto a non volare giù, ti ricordi? Ora tocca a te evitare di franarmi addosso... poi Vale e Lori non ti lasceranno, è evidente che vogliono essere loro a ucciderci, ma non in un modo così banale..."
Guardai le ragazze che da quando Marco era sceso non avevano più aperto bocca. Avevano appoggiato a terra gli zaini ed erano pronte ad aiutarmi. Parlò Lori, quasi con rabbia:
"Quanto credi di pesare... quattro ossa e una scatola cranica vuota... idiota tu e lui là sotto... cercate almeno di non fare del male a quella povera bestia..."
"Ok, maledetto somaro, adesso ci provo. Tu non muoverti fino a quando non vedi dove riesco ad arrivare... e sta attento, pronto a scansarti, casomai io... vabbè... e non promettere...", gli bloccai così sul nascere la tipica formuletta rituale che era solito propinare a Valentina e che in quel momento era per me priva di significato.
Tolsi dal muretto un paio di pietre scalzate – Dio mio... – e vi appoggiai il torace; il torrente, aldilà del misero terrazzino che mai avrebbe arrestato una caduta, era distante più della luna, ma il gorgoglio dell'acqua mi risuonava nelle orecchie come una sgraziata risata. Sentii una presa nelle caviglie, cercai di crederla ferrea, poi delicatamente, ondeggiando sui fianchi, avanzai fin quando ad appoggiarsi fu la pancia. Riuscii a piegarmi in avanti, ad angolo retto, e stesi le braccia. Capii subito che sarebbe stato difficile risalire anche avendo le mani libere.
"Ok, Marco, tocca a te".
"Va bene, sei sceso abbastanza... ce la faremo... arrivo".
Si era nel frattempo alzato. Prese il bracco, se lo strinse addosso col braccio destro e con la mano sinistra si aggrappò a un nasetto di roccia salendo con movimenti lentissimi sul gradino che in quella posizione riuscivo a scorgere: era largo una spanna.
Restò fermo fino a quando fu sicuro di aver trovato l'equilibrio sui piedi e della pacata immobilità del cane, poi staccò la mano dalla presa, lo accarezzò e lo strinse sotto le ascelle, quindi iniziò a sollevarlo, sopra alle proprie spalle, alla propria testa. Era un filmato al rallentatore, era un cartone animato, un sogno assurdo, io ero in un altro luogo, certamente non lì, non testimone, men che meno protagonista.
Le braccia di Marco tremavano per lo sforzo, ma incredibilmente il cane non muoveva un muscolo, pareva intuire i nostri pensieri ed essere consapevole della nostra paura, pareva collaborare offrendoci la sua tranquilla fiducia. Sfiorai le mani sudate e lo afferrai, lo strinsi, quasi lo stritolai temendo che mi sfuggisse provando a divincolarsi.
"Ce l'hai? Lo lascio...", balbettò Marco con un filo di voce.
"Sì, lo tengo... Dio mio quanto pesa... Lori, tiratemi piano e state pronte a prenderlo... vi dirò io quando..."
Sentivo il suo alito caldo, umido sul viso e lo sguardo penetrante che cercava i miei occhi; forse era il terrore a bloccare le sue reazioni, forse era tutto un gioco per quel bellissimo bracco che godeva del nostro contatto ravvicinato, forse sapeva che mai l'avrei fatto precipitare perché mai avrei sopportato di fallire in una simile occasione, di assistere alla sua morte, di provocarla.

Le ragazze faticarono non poco, ma riuscirono a favorire i miei movimenti; strisciando a ritroso su pietre che il caso volle mantenere fisse, mi graffiai l'addome, mi scorticai il torace tanto da lasciare righe di sangue sulla maglietta strappata, ma il dolore tremendo fu alle spalle i cui tendini presero fuoco nel trattenere gli arti distesi, ancorati a quell'inerme macigno peloso.
"Ci sono... è fatta... il cane, ora..."
Quando in due lo issarono liberandomi, depositandolo in salvo sulla mulattiera, sentii le lacrime mischiarsi al sudore. Provai ad alzarmi e terribile fu la sensazione cadendo in ginocchio: i pugnali piantati fra omero e scapola mi impedivano di muovere le braccia, anche solo le dita delle mani che restarono appoggiate sul dorso al suolo, senza vita. Poi un calore improvviso anticipò e catalizzò il formicolio; mi accorsi così che la manovra era riuscita, che il danno era recuperabile, che Lori, Vale e il bracco erano lì vicino e soffrivano con me.
"Come stai, Luca?" – quando lei mi chiama per nome so che sta per esplodere, o che è preoccupata.
"Tutto a posto. Sto facendo un po' di scena..." e finalmente fui in grado di reggermi in piedi.
"Ci siete ancora là sopra? Dai, che si fa tardi, datemi una mano".
"In cambio della tua maglietta..."
"La maglietta... perché... ok, ci sto".
"Promesso?"
"Oibò, certo che lo prometto!"

Risultò meno semplice del previsto recuperare quegli 80 chili di imprevedibilità. Quando fu su con noi assistemmo a una scena indimenticabile, fra le più commoventi e significative della mia vita: il cane, che fino a quel momento era restato accucciato in disparte tanto che quasi l'avevamo dimenticato, impazzito di gioia gli saltò in braccio, poi si staccò e velocissimo corse sulla mulattiera sparendo in direzione del paese; aveva atteso, indubbiamente aveva atteso che anche Marco fosse in salvo prima di fuggire felice verso casa.
Il castello fu una delusione: un rudere insignificante, una montagna di tristi pietre squadrate senza alcun interesse, neppure una torretta da scalare, un cunicolo dove strisciare con la torcia in mano, un cartello di divieto da ignorare; in compenso potei tornare in campeggio con la mia nuova maglietta intatta.
Quella sera, in pizzeria, euforici, spendemmo troppo: un placido fiume di birra cullò i nostri discorsi, contribuì ad amplificare i rispettivi meriti, a romanzare il racconto di pensieri e sensazioni, a minimizzare dubbi e paure che nessuno di noi aveva in realtà provato. Restavano solamente i soldi per la benzina e un paio di giorni dopo mandammo Lori e Vale a convincere il proprietario del campeggio ad accettare un assegno in pagamento...

In novembre partecipai a un corso di speleologia; Marco era uno degli istruttori.
Nei due anni successivi le nostre avventure furono innumerevoli. Una volta scivolò in una grotta e sarebbe precipitato in un pozzo se non mi fossi gettato su di lui rischiando a mia volta di cadere, un'altra fui io a rimanere sospeso, slegato, per un errore di valutazione e Marco a soccorrermi, rapido, sicuro, perché nel frattempo era diventato tecnicamente perfetto e fisicamente fortissimo.
Un Carnevale partimmo mascherati per l'Umbria. Sul monte Subasio, con 10 centimetri di neve, il 2cv mostrò i suoi limiti: probabilmente ancora oggi qualcuno narra, non creduto, di aver un giorno visto lassù un pinguino, un beduino e Paperina spingere una piccola auto in panne guidata da un pirata...

Lui trovò un lavoro a Milano; io, poi, fui trasferito a Latina.
Ci sentimmo per telefono, sempre più raramente... gli incantesimi perdono d'intensità con l'aumentare della distanza e soprattutto non sopravvivono al passare del tempo.
Lo rividi una decina di anni dopo, per caso. Nel giorno d'inaugurazione della sua mostra, la prima nei suoi progetti – perché Marco realmente era un artista – mi capitò di passare nel piccolo paese in cui abitava da alcuni mesi, nei pressi di Forlì. Parlammo solo per pochi minuti perchè l'aveva sorpreso il discreto numero di persone intervenute, era quindi impegnato e visibilmente emozionato.
Fece in tempo a raccontarmi del matrimonio fallito, non con Valentina, e del problematico divorzio, della bimba che avrebbe portato al mare nel weekend e della grande opera astratta dai colori vivissimi che avevamo davanti. Lavorava sui negativi delle foto, li alterava con tinte sintetiche, lucide e ne ricavava intriganti gigantografie; erano però a mio parere dei capolavori di semplicità e dolcezza i suoi disegni a matita.
Non andava più in montagna e neppure ricordava l'ultima volta che aveva esplorato una grotta. Io ero diventato un mediocre alpinista e un discreto speleologo.
"L'hai poi preso un cane?"
"No, non è stato possibile, mancava lo spazio... troppo impegnativo".
"Ora scappo, mi aspetta Lori... il pubblico ti reclama, anche quel giornalista... che ne dici di una pizza, una di queste sere? Adesso che sei famoso, avrai un'oretta per un vecchio amico?"
"Oibò, stai scherzando? Ci sarò, te lo prometto".
Passarono un paio di settimane. Una mattina lessi sul giornale locale che un automobilista aveva ucciso Marco. Era stato investito il giorno prima mentre in bicicletta stava tornando a casa. Era morto sul colpo.

Dalla finestra del mio studio riesco a vedere i colli che con regolarità si alzano verso il crinale dell'Appennino disegnando la valle del Montone; ancora per poco potrò farlo perchè costruiranno palazzine e villette nel vigneto che da qui si stende ad ovest e perdendo i contorni pare infinito e così raggiungerli. Sull'altura più vicina alla pianura, la più bassa, è facile riconoscere il profilo geometrico dell'edificio che ne altera la curva naturale della cima: è la rocca di Montepoggiolo. Mi hanno detto che ora è una proprietà privata, recintata. Non torno lassù da tanti anni, forse da quella lontanissima primavera.

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